COVID-19: l’isolamento di oggi per ripensare il domani

Federico Savini

Tutti chiusi in casa. Tutti a preoccuparci del prossimo e dei nostri cari, a vivere il presente, con particolare attenzione al vicino che sgancia l’ennesimo colpo di tosse. Allo stesso tempo diventiamo testimoni dello sforzo creativo di milioni di persone che, alla ricerca di rimedi per la noia, recuperano la prassi quotidiana della riflessione sul futuro.  Il dramma dei decessi è sotto gli occhi di tutti, quello che è meno evidente sono le verità che questo virus rivela con una violenza sconvolgente.

Il coronavirus ha prodotto un consenso unanime sulla condizione di crisi che stiamo vivendo. Le crisi sono sempre dei prodotti di narrazioni politiche ma questa è di diversa natura. Essa colpisce il nostro organismo in modo diretto. Una crisi economica colpisce il nostro organismo in modo indiretto, togliendo le condizioni necessarie alla sopravvivenza come casa e assistenza sanitaria, diventando causa di disabilità, malattie, povertà, denutrizione ed emergenze sociali. Crisi di questo tipo sono pericolosissime perché le loro cause sono suscettibili di interpretazione, così come le possibili soluzioni. Questa è invece una crisi primariamente biofisica che si manifesta come una invasione virale che attacca il nostro corpo.  Essa Ha una evoluzione meccanica, matematica (il tasso di contagiosità), e di conseguenza ha soluzioni immediate meccaniche e matematiche (l’apporto artificiale di ossigeno, i farmaci antivirali ed i respiratori, l’isolamento). Tutti concordano sull’urgenza di una risposta collettiva e richiamano ad una azione coordinata di tutti e di tutte le istituzioni.

È proprio per la sua natura che questo intruso virale ci permette di comprendere la relazione distruttiva tra il nostro sistema economico e quello biofisico, la coabitazione tra le infrastrutture sociali ed economiche che sostengono la nostra esistenza, ed il funzionamento dell’ecosistema planetario, inclusi i nostri polmoni.  Il virus ci apre gli occhi sulle distorte associazioni tra economia, societá e natura di cui spesso non siamo consapevoli. La chiamano l’economia ma è invece l’ecosistema, cioè il rapporto tra tutte le specie viventi, e non, all’interno di un determinato ambiente; la chiamano zoonosi ma è invece la distruzione di biodiversità; la chiamano pandemia ma è invece la globalizzazione senza regolamentazione; lo chiamando decorso ma è invece ecocidio, cioè l’estinzione antropogenica di massa di specie viventi che è necessaria al mantenimento dell’equilibrio fisiologico del nostro corpo, esso stesso un ecosistema in equilibrio.

Tutti i virus mortali degli ultimi anni, incluso il COVID, sono il regalo involontario di animali portatori di infezioni, pipistrelli, zanzare, ratti, scimmie. È ormai comprovato che l’aumento dei cosiddetti spillover – la trasmissione di parassiti dall’animale all’uomo – è causato dalla distruzione degli equilibri che caratterizzano l’habitat di questi animali che sono spinti a percorrere grandi distanze verso zone abitate e così facendo aumentano il rischio di trasmettere questi parassiti all’uomo. La distruzione di questi habitat è l’effetto della antropizzazione, cioè la colonizzazione della natura da parte di un sistema produttivo estrattivo e degenerativo promosso dall’uomo. Un sistema primariamente sostenuto dall’industria zootecnica, che sfrutta le risorse naturali e rade al suolo la biodiversità necessaria all’equilibrio biologico tra tutti gli organismi viventi e non. Il COVID è infine il risultato dell’assurda coabitazione tra uomini ed animali selvatici venduti ancora in vita al mercato della carne.

Il decorso della malattia da COVID non è di 4 settimane ma percorre tutta la modernità dell’industria agricola che ha progressivamente sfruttato e tutt’ora sfrutta il nostro pianeta. Non preoccupiamoci per le nostre melanzane e zucchine: la prima causa della perdita di biodiversità è l’agricoltura da foraggio e della carne, un settore che abusa dell’80% del suolo agricolo mondiale.

Credits: Friends of the Earth Scotland/Flikr

Il COVID però ci rende consapevoli degli elementi veramente importanti e vitali del nostro sistema sociale ed economico, ci fa riscoprire il valore della cosiddetta ‘economia della cura e della conoscenza’. Questi settori condividono una caratteristica importante: sono settori ad alto impiego di manodopera qualificata, che necessitano di persone in grado di gestire mansioni imprevedibili e complesse, inoltre sono i meno suscettibili agli incrementi di produttività dati dall’automazione. Il lavoro dell’essere umano in queste attività è l’unico capace di gestire con rapidità situazioni fuori dall’ordinario, contestuali, non-lineari, totalmente diverse da quelle che la computazione algoritmica della macchina è in grado di processare. Il lavoro esplorativo, analitico e coordinato che il medico esegue sul nostro corpo è insostituibile.

Il COVID ha anche risvegliato la disperata rincorsa all’analisi dei dettagli e delle certezze riposizionando il ruolo dell’esperto al centro del dibattito politico, in quanto conoscitore dei fatti in tempi di post-verità e fake news; esso ha rivelato pure quanto lo stesso esperto necessita di risorse, sia materiali che umane (e soprattutto non precarie) per raggiungere conclusioni significative. Ruolo analogo ha il docente che offre le condizioni necessarie per la produzione e la trasmissione della conoscenza. Con il mondo della medicina infatti sono anche i settori della cultura, della conoscenza, della cura dei bambini, dell’interazione creativa (arte, musei, scuola e doposcuola) quelli che più fra tutti vengono a mancare, come l’ossigeno, in tempi di isolamento.

Sono questi i settori che più di tutti andrebbero rinforzati, sostenuti e protetti contro un neoliberalismo che, cavalcando lo shock, potrebbe diventare ancora più aggressivo. L’economia della cura la riconosciamo oggi come l’antivirale necessario contro le industrie più impattanti sul nostro ecosistema e non sorprende che le filiere più in sofferenza sono esattamente quelle più dannose per l’ambiente. La crisi dell’industria fossile, seppur oggi accentuata, è da anni teatro di un’infinita serie di fusioni, contenziosi e ristrutturazioni, come quelle del settore aeroportuale, dell’acciaio, dei rifiuti, del gas etc.

Il COVID ci sta facendo anche riscoprire il valore del verde, della mobilità lenta, la prossimità del quartiere, del circondario e del rione; il piacere della bicicletta e dell’aria aperta. Gli spazi pubblici e verdi sono la necessaria terapia d’ossigenazione per le megalopoli contemporanee, sono una medicina che di fatto cura i milioni di persone che ogni anno accusano sintomi respiratori gravi a causa dell’inquinamento, fattore quest’ultimo molto più letale del COVID. Lo spazio verde e pubblico è il cuore pompante della vitalità urbana. Esattamente come l’economia della cura, il verde urbano non prospera sulle tecnologie di automazione impiegate nella mobilità di massa, nella gestione del traffico, nella cartografia interattiva, nell’acquisto online. Il verde non è smart, è antiquato, classico, semplice ed economico: pretende alberi, panchine, laghi, canali, aiuole, piste ciclabili.  Si riscopre il parco dietro casa, senza bisogno di google maps che ci dica quando è aperto e quanto è affollato. Durante l’isolamento la tecnologia recupera invece il suo ruolo più nobile, cioè quello di sostenere una comunicazione emotiva, autentica e di significato.

Andrà tutto bene. Nel brevissimo periodo durante il quale gli esseri umani hanno abitato (e purtroppo quasi distrutto) questo pianeta, la nostra specie ha dimostrato una resilienza ed elasticità incredibili. Stiamo dimostrando di poter generare una immunità ai virus e a tanti altri agenti patogeni; allo stesso tempo stiamo dando dimostrazione di avere un’alta capacità di tollerare provvedimenti economici, sociali e politici che solo poche settimane fa percepivamo come inaccettabili. Lo stato sta dimostrando di poter applicare un grado di regolamentazione inimmaginabile in un contesto dove i principi del liberalismo, dell’individualismo, della libertà d’impresa si elevano ad assiomi della vita sociale. Abbiamo raggiunto livelli di controllo che avrebbero mandato anche Foucault – il teorico della sorveglianza e disciplina – al manicomio.

Il COVID ci insegna che la regolamentazione ha una utilità sociale ed economica, ci dimostra che è fattibile prendere quei provvedimenti radicali di limitazione e redistribuzione che sono oggi necessari per ricostruire una economia ecocompatibile ed equa. La somiglianza tra alcune delle proposte per gestire la crisi virale e quelle per gestire la crisi ecologica è lampante: la (auto)limitazione del traffico non necessario, soprattutto quello aereo; la promozione della mobilità lenta e sostenibile; il rinforzo dell’economia della cura, della sanità e della scuola; lo smart working quando possibile; la necessità di una fiscalità redistributiva che si fa scudo al lavoro soprattutto quello precario; la progressività fiscale a protezione della piccola impresa; l’arricchimento del lavoro intellettuale e fisico dell’essere umano e non della rendita; la tutela sociale e materiale del lavoratore, tramite l’istituzione di un reddito minimo di cittadinanza; la gestione degli orari d’apertura dei centri commerciali e la rivalutazione dell’importanza delle attività culturali.

Al di la delle misure specifiche, quello che più di tutti accomuna la lotta contro il COVID e quella contro la distruzione dell’ecosistema planetario è l’applicazione seria, sistematica e rigorosa del principio di precauzione. Se i fiumi, le foreste, i sottosuoli, la flora e la fauna, e la stessa atmosfera fossero trattate come i nostri polmoni, potremmo prevenire tutte attività dannose per l’ambiente ed evitare di contare danni che purtroppo si quantificano sotto forma di decessi, migranti ecologici, alluvioni, famiglie espropriate della casa, contaminazioni di falde, e le milioni di specie estinte. Il COVID ci sta comunicando che è possibile tutto quello che è necessario per salvare le vite umane e per proteggere il nostro ecosistema, ma anche che prevenire è sempre meglio che curare.

I provvedimenti presi contro il COVID sdoganano il concetto di radicalità. Il suo impatto spaventoso sulla vita delle persone accentua l’importanza di ripensare le cose alla radice. Marx definiva la radicalità come l’andare alla radice e sosteneva che la radice dell’uomo fosse l’uomo stesso. La lezione più importante del COVID è proprio questa: la riscoperta della natura dell’uomo, quella biofisica e fisiologica cosi come quella economica e sociale. Come tanti, anche io non conoscevo il termine di ‘immunità di gregge, cioè lo sviluppo all’interno di un gruppo di individui (per esempio una nazione) di una resistenza ad un attacco virale tramite l’immunizzazione della maggioranza degli individui del gruppo stesso. In gergo tecnico, il termine viene usato per identificare i benefici della vaccinazione di massa, tuttavia esso ci aiuta a posizionare l’individuo singolo all’interno del gruppo, che è tanto fisico quanto sociale. Possiamo dire che l’immunità di gruppo sta al mondo medico come la solidarietà sociale sta a quello socio-politico. Il COVID sta risvegliando il rispetto per il prossimo in tutte le sue forme, sia fisiche che sociali, il lavarsi le mani o lo starnutire nel gomito non sono altro che la manifestazione del rispetto del diritto sacrosanto del nostro vicino a non essere contagiato. La solidarietà sociale è la vera giustificazione dello ‘stare tutti a casa’ e dell’autoisolamento, il cui obbiettivo principale non è quello di proteggere sé stessi ma gli altri. L’antitesi della solidarietà sociale è l’egoismo sociale e purtroppo, il COVID ci ha fatto riscoprire anche quello.  Non è raro incontrare giovani baldanzosi che giustificano il loro bazzicare con l’indicare l’improbabilità statistica di accusare sintomi. Tale atteggiamento smaschera un egocentrismo che spesso fa più danni del virus e che può mutare anche in razzismo se il gruppo che deve sviluppare l’immunità è la tribù nazionale, mobilitata a sua volta come difesa contro l’invasione di un virus che dopotutto solo cinese non è.

Leave a comment